Brand è una parola che avrai sentito spesso, usata in contesti più o meno appropriati. Il concetto di brand rappresenta una delle radici del marketing e della comunicazione esterna d’azienda, un qualcosa la cui assenza di definizione getterebbe l’azienda stessa in un limbo di anonimato votato al fallimento.
Una cosa tanto importante, ovviamente, non può che accogliere dentro di sé diverse sfumature. Da questa radice, infatti, nascono diversi concetti correlati, come quello di brand identity o l’espressione “fare branding”, sui quali regna molta confusione.
Il nostro obiettivo oggi è proprio quello di fare luce su questi argomenti: perché il brand è così importante? Cosa significa costruire la brand identity? Qual è il modo giusto di fare branding?
Andiamo con ordine.
Cosa significa brand?
Iniziamo dalla definizione di brand (secondo la Treccani):
Nel linguaggio della pubblicità e del marketing aziendale, marchio di fabbrica.
In realtà, però, questa definizione è riduttiva.
Il “brand” (la “marca”), infatti, è molto di più: è un’entità concettuale, un intero universo che si interfaccia ed interagisce con la persona ad un livello più profondo, stabilendo una vera e propria relazione.
Il brand è una dimensione intangibile ma un asset aziendale dall’impatto economico misurabile che oltre al logo include aspetti come:
- gli elementi visivi come colori, forme, font,
- il posizionamento,
- la simbologia,
- i valori,
- la storia,
- l’originalità dei prodotti/servizi di un’azienda
e definisce il modo in cui tutti questi elementi si pongono nei confronti del proprio pubblico.
Il brand non è nato con il capitalismo: ha una storia che viene da molto più lontano ed esisteva secoli prima dell’avvento del marketing moderno. Di certo non si chiamava così ma la funzione era la stessa.
Studi approfonditi fanno risalire la comparsa del marchio al 2250 a.C. nella valle dell’Indo, un’area oggi compresa fra il Pakistan e la Cina. Sin dal suo esordio la sua funzione principale era:
- trasportare informazioni relative all’origine ed alla qualità di un prodotto;
- veicolare un’immagine di potere.
Un interessante approfondimento si trova all’indirizzo The Birth of Brand: 4000 Years of Branding History attraverso la rete RePEc (Research Papers in Economics), gestito dalla Biblioteca universitaria di Monaco di Baviera.
Perché si dice brand? Dal punto di vista etimologico, il termine risale alle antiche lingue germaniche, dove brand era inteso come “marchiare a fuoco”, in riferimento a ciò che veniva fatto con il bestiame. L’obiettivo era quello di creare un marchio distintivo, immediatamente riconoscibile.
Esattamente lo stesso obiettivo che oggi ha chi vuole creare un brand, nella sua accezione legata al marketing: per lasciare il segno è fondamentale studiare nel dettaglio tutto ciò che gravita attorno al concetto di brand e soprattutto porre estrema attenzione al rapporto con il target di riferimento e al modo in cui ci percepisce.
Cos’è la brand identity?
Il concetto di marchio si è evoluto solo in tempi recenti, assumendo una fisionomia molto più articolata e generando quella che oggi conosciamo come marca, o brand appunto.
In questo senso, diventa netta la separazione fra marchio – l’insieme degli elementi sensoriali che identificano la marca – e marca – l’insieme di percezioni e collegamenti sinaptici che portano il cliente ad identificarsi e prediligere una determinata azienda.
Cosa significa davvero Brand oggi? Complicato riassumere il concetto in una singola parola ma, sintetizzando al massimo, potremmo spiegarlo con “identità”. Identità che comprende la personalità di un’azienda insieme a tutto il suo patrimonio di valori, storia e reputazione attraverso i quali si relaziona con il mercato.
Non è più solo l’elemento visivo, ma è la stessa personalità dell’azienda, sempre più indipendente e definita, che opera per stabilire una connessione profonda con la mente del consumatore.
Attenzione però a non confondere questo concetto con quello di brand identity, che si riferisce invece agli elementi che l’azienda usa per comunicare i propri valori e che includono il nome stesso, il tono di voce, i colori, gli slogan e (ultimo ma non meno importante) il logo.
Brand e logo
Sono diversi gli elementi che definiscono un brand. Uno dei più importanti è sicuramente il logo (da logotipo), una figura composta da un simbolo o da una rappresentazione grafica di una scritta, usata per rappresentare un’azienda o uno specifico prodotto.
Un logo nasce da un attento studio e deve riassumere visivamente i valori che vogliono essere comunicati dal brand.
Per questo motivo non basta che il logo sia bello o d’impatto ma deve anche presupporre un accurato studio del lettering, delle forme e dei colori che verranno impiegati, così da veicolare i messaggi desiderati.
Hai notato che molte aziende dedicate alla coltivazione di prodotti biologici fanno ampio uso del verde nei propri loghi e siti? Ecco spiegato il perché.
Il logo è spesso la prima forma di contatto tra persona e brand e serve al consumatore per costruire un’immediata associazione con il già citato universo di valori rappresentati dal brand e dai suoi prodotti. Se il brand è un’entità astratta, quindi, il logo è ciò che ci permette di riconoscerla.
Un logo efficace trasmette quindi qualità, fiducia, sicurezza e aiuta il brand stesso a comunicare la propria superiorità sui competitor. D’altronde, ricordi casi di aziende di successo con loghi… brutti?
Cos’è il brand positioning?
Nella società iper-comunicativa di oggi, il cervello è costantemente assediato da migliaia di messaggi. Il suo obiettivo è difendersi, cosa che fa egregiamente filtrando la maggior parte degli stimoli esterni e dando luce verde solo a quelle informazioni utili che si agganciano a concetti preesistenti.
Proprio su questo si fonda il mantra del padre del brand positioning Al Ries: “Less is more”.
In un panorama straripante di informazioni, farsi ricordare è diventato difficile. Il posizionamento di brand si occupa di questo: focalizza il messaggio semplificato su un unico concetto, lo ripete, e mira a conquistare, e poi mantenere, la prima o la seconda posizione di categoria.
Se queste posizioni sono già occupate, meglio evitare lo scontro e concentrarsi su un segmento più ristretto, mostrandosi però originali e specializzati.
Fare brand positioning significa anche definire una direzione. Margaret Thatcher disse: “Stare al centro della strada è molto pericoloso perché rischi di essere buttato giù dalle automobili che vanno in entrambe le direzioni”.
La strategia di posizionamento serve proprio ad evitare di procedere a caso, rimanendo in mezzo alla strada, senza mai sapere quali sono i tuoi nemici e da dove possono arrivarti le loro bordate.
Esempi: il caso Tudor e il caso Kodak
Il tempo è orizzontale ma come lo viviamo è verticale.
Lo sapeva bene anche Hans Wilsdorf che nel 1908 registrò il marchio Rolex. Aveva ben compreso già allora che serviva un nome breve, facile da incidere nella mente e soprattutto pronunciabile un po’ a tutte le latitudini.
All’epoca gli orologi peccavano quanto a precisione.
Nel 1910, Rolex fu il primo orologio ad ottenere la certificazione di precisione cronometrica: cosa non di poco conto che permise all’orologio di ottenere il successo e il prestigio che detiene ancora oggi.
Nonostante il successo, Wilsdorf volle ampliare la propria offerta, operando su un segmento di mercato con minore capacità di spesa ma sempre mantenendo un alto standard. Sapeva che non poteva liquefare il posizionamento raggiunto da Rolex e che era necessario creare un nuovo marchio.
Fu così che nel 1926 registrò il marchio Tudor. Ci vollero vent’anni affinché il marchio entrasse fattivamente in attività ed altri dieci per diventare popolare.
Oggi sono due marchi ancora in attività, floridi e dalle identità indipendenti.
Non a tutti spetta però lo stesso destino: è importante aggiornare la prospettiva dalla quale un’azienda guarda il proprio mercato. Ciò che è importante è la categoria. Un brand, per quanto importante possa essere, non sopravvive se la categoria arriva a fine vita.
Pensa a Kodak ed all’omonima pellicola fotografica. Kodak inventò la fotocamera digitale già nel 1975 ma nella memoria collettiva Kodak significava pellicola, non macchina digitale. Così, quando la pellicola è finita, è finita anche Kodak.
Oppure può accadere che un brand ceda il passo ad un altro brand nella medesima categoria, se non si mantiene vivo agli occhi e soprattutto nelle menti del proprio mercato.
Per questo motivo è importante il brand positioning, che focalizza il messaggio e non lo liquefa su più fronti, favorendo la brand awareness.
Come fare branding?
Una volta definito dove l’azienda si vuole posizionare, è il momento di mettere in atto ciò che serve per arrivarci.
Il processo di branding consiste nel creare un’immagine unica del brand nella mente dei consumatori. Il branding è quindi una strategia finalizzata alla creazione del valore del brand, alla costruzione di un’immagine utile a stabilire un’identità propria e inconfondibile nella platea di riferimento.
Poiché le emozioni risiedono nel cervello e memorizziamo di più quando ci emozioniamo, fare branding vuol dire stimolare emozioni nell’utente.
Le emozioni attivano l’amigdala che manda informazioni all’ippocampo – prima sede del cervello che immagazzina informazioni – che poi trasmette tutto alla corteccia cerebrale, che funge da archivio a lungo termine delle stesse informazioni.
Affinché sia efficace, il messaggio deve essere semplice e lineare e operare su tre fronti essenziali:
- distintività;
- coerenza;
- costanza;
- definizione dei valori del brand – mission, vision, promessa, …;
- brand identity;
- pubblicità e comunicazione – che sono quindi solo uno degli elementi del fare branding;
- sponsorizzazioni di eventi;
- partnership con testimonial e influencer;
- design del prodotto e packaging;
- esperienza di acquisto e assistenza post-vendita;
- strategia di prezzo;
Brand famosi: l’esempio di Adidas
Al concetto di Brand appartengono, come abbiamo visto, l’idea di logo, l’immagine coordinata, i colori dei suoi simboli e ciò che essi evocano.
Adidas è un brand che si fa ricordare per il suo pittogramma in bianco e nero che si riconosce anche senza l’aggiunta del logotipo. Anche senza l’aggiunta di uno dei suoi claim più ricorrenti nella sua terra d’origine, la Germania: “die marke mit den 3 streifen” ovvero “la marca con le 3 strisce”.
Ma Adidas riesce a fare ancora di più stabilendo una connessione profonda con il suo target. Interpreta l’archetipo dell’eroe, quello che con tenacia e coraggio affronta le sfide impossibili, e subito dopo lo “umanizza”, per così dire, lo mette a fianco dell’uomo comune che esorta a fare anche lui grandi cose.
Come? Adottando Adidas, i suoi prodotti, il suo stile, il tipo di vita che propone.
Non a caso su questi modelli la casa tedesca ha impostato una strepitosa campagna globale rivolta ad un pubblico giovane e amante dello sport.
Nel 2004 spese una cifra esorbitante, 50 milioni di dollari, coinvolgendo 22 atleti tra i quali David Beckham, Tracy McGrady e Cassius Clay (ribattezzatosi Muhammad Ali) tutti icone in diverse specialità, che, nonostante non fossero più giovanissimi, avevano accettato nuove sfide.
“Impossible is nothing”, l’ormai famosissimo claim, Adidas lo riprese proprio da un discorso di Muhammad Ali, campione del ring nel 1964, 1974 e nel 1978.
“Impossibile è solo una parola grossa lanciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato piuttosto che esplorare il potere che hanno per cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto. È un’opinione. Impossibile non è una dichiarazione. È una sfida. Impossibile è potenziale. Impossibile è temporaneo. Niente è impossibile”.
Adidas è dunque un esempio vincente di come il brand sia riuscito a comprendere tutti i valori percepiti sia dal suo pubblico di riferimento, che con esso s’identifica o almeno simpatizza, sia dagli addetti ai lavori che creano, plasmano e posizionano nel tempo il brand sul mercato.