Il naming è il processo di scelta del nome. Ridotto alla sua essenzialità, questo concetto potrebbe apparire semplice ma non è così.
Nome e brand sono due entità strettamente correlate e se è vero che la seconda nasconde dietro di sé un mondo, fatto di valori, identità, immagine e molto altro, allora la prima non può sfuggire a questa complessità.
Il brand naming diventa quindi il processo che serve a definire un nome che sia espressione di tutta questa complessità, un nome che attraverso il suo aspetto grafico, attraverso il modo in cui suona alle nostre orecchie, deve evocare un intero mondo.
Come fare a trovare il nome giusto per ciò che stai proponendo? È proprio questa la domanda alla quale vogliamo dare una risposta, spiegandoti cosa c’è dietro ad una naming strategy e portandoti come esempio la scelta di un nome a noi particolarmente caro: il nostro.
Naming e psicologia: perché il nome è importante?
I capelli mori un po’ mossi, gli occhi luminosi e profondi, le mani affusolate e la pelle morbida: forme armoniche che chiamano all’ascolto di una voce soave ai sensi, capace anche di schiudere le porte di bronzo bizantine. E un nome, Rosaria.
Magia del nome.
Si presenta con l’intensità dei colori stesi sulla tela da Jacque Louis David per il suo Napoleone che supera le Alpi, intensità che, con pari impeto trionfale, irrompe nella mente di chi rievoca quel nome.
Il nome dal punto di vista psicologico ha un impatto senza pari. È il nome a definire l’esistenza di qualcosa e, molto spesso, anche la sua identità.
Le idee, le persone, gli oggetti, i fatti, le azioni, i sentimenti sono categorie che usiamo per scandire la realtà, per capirla e raccontarla. E come faremmo se ad ogni cosa, materiale o no, non avessimo dato un nome?
Il nome è un’entità concettuale unica: massima espressione di sintesi, certifica l’esistenza di un valore o di un’azione, di qualcosa o di qualcuno che, se non l’avesse, semplicemente non esisterebbe. Nel marketing è un pilastro della brand identity.
Il nome è così importante da essere tramandato da una generazione all’altra per conservare l’identità di una famiglia o del primo genitore di cui si abbia memoria.
Nemmeno le aziende fanno eccezione.
Così, a distanza di decenni, alcune, quelle con la tradizione più lunga e gloriosa, continuano a identificarsi con il nome del fondatore; è il caso di Enzo Ferrari ed Egidio Galbani. La Galbani, nonostante dal 2006 sia controllata dalla multinazionale francese Lactalis, ha conservato il cognome con cui nacque nel 1882.
Il significato di naming
Osserviamo per un attimo la questione dal suo punto di vista più tecnico.
Volendo dare una definizione, possiamo dire che il naming è il processo di studio e selezione del nome di un brand, di un servizio o di un prodotto.
Questo processo si basa su un’attenta analisi del mercato, del target e delle caratteristiche proprie di ciò di cui dobbiamo trovare il nome.
Naming e branding sono quindi co-dipendenti: le caratteristiche del brand influenzano infatti la scelta del nome e, al tempo stesso, il nome può influenzare la percezione che le persone hanno del brand.
“Un nome di marca efficace può contribuire sensibilmente al successo di un prodotto.”
(P. Kotler – “Principi di marketing”)
Il brand naming è quindi uno dei primi passi verso il successo. Un nome efficace, molto spesso, riesce a concludere già da solo una vendita.
Il naming nel marketing
Per illustrare i molteplici aspetti del naming, partirò dall’esperienza che conosco meglio, la nostra.
La rete, turbo-dispensatrice di immagini ed informazioni, assedia con milioni di informazioni il nostro cervello che, per legittima difesa, alza muri alti abbastanza da respingere gli attacchi dall’esterno. Tutti, o quasi. Non possiamo accogliere e contenere tutte le cose che ci si affollano intorno, cose che, appunto, se vogliono avere una speranza di penetrazione hanno bisogno di un nome.
Fino all’Ottocento di nomi di prodotti e di aziende ce n’erano pochi ed i mass media erano al di là da venire.
Oggi sono talmente tanti che la scelta sbagliata del nome per identificare un prodotto, un servizio o la nostra stessa impresa ci condannerebbe ad essere una goccia nell’oceano.
Il nome deve sottolineare la nostra differenza dai concorrenti; deve essere originale, breve e facile da ricordare, appropriato a ciò che facciamo, coerente con il modo in cui ci presentiamo.
La battaglia da vincere è quella del posizionamento nella mente delle persone: devi essere il primo o al massimo il secondo della categoria.
Come trovare il nome giusto? La naming strategy
Un nome non può essere scelto a caso ma va ricamato in maniera armoniosa sulla base delle caratteristiche di ciò che abbiamo davanti, sottolineandone i punti di forza.
Che si tratti del naming di un prodotto o di un brand, il procedimento da seguire è sempre lo stesso.
Una strategia di naming efficace ha bisogno di:
- analisi dei valori del brand o del prodotto/servizio;
- analisi di mercato, per verificare quanto interesse c’è verso il prodotto o il settore di attività;
- analisi dei competitor, per capire con chi andiamo a misurarci e come si comportano;
- analisi del target, prestando estrema attenzione ai loro interessi e cercando di capire quali leve di marketing sono più efficaci. Attenzione anche ad eventuali elementi turn-off, ossia quelli che possono allontanare il target, e ad eventuali problemi di localizzazione linguistica o culturali.
Da questi elementi di partenza, solitamente si procede con un brainstorming, durante il quale emergono tutte le potenziali idee, buone o cattive che siano.
Molto importante è come il possibile nome suona e quali associazioni evoca in chi lo legge o sente nominare.
Si tratta quindi di un processo in più fasi, che coinvolge diverse sfere emotive, organizzate in modo preciso secondo una strategia definita a priori.
Il nome da solo, però, potrebbe non bastare. In questi casi naming e payoff dovranno muoversi in maniera coerente tra loro, affinché tu possa apparire esattamente come vuoi.
Il nome ti definisce, il payoff ti qualifica.
Un esempio di naming strategy: il caso Ingigni
Arrivati a questo punto, mettiamo in campo la nostra esperienza diretta, con un case-study che ci tocca da vicino e del quale andiamo particolarmente fieri: il nostro.
Dopo anni di amicizia e tante esperienze di lavoro insieme, decidiamo con Liborio che è arrivato il momento di dare forma ad un progetto.
Siamo affiatati e complementari ma stavamo pur sempre avventurandoci nel passaggio più insidioso dell’avventura: come novelli alchimisti, dovevamo trovare l’amalgama delle diverse potenzialità del nostro brand e farlo conoscere all’esterno con un nome rappresentativo.
Facilissimo, a dirsi.
La ricerca creativa
Siamo intorno a metà 2021, in un periodo strano di proibizioni e chiusure. La mobilità era condizionata, semaforica, e quanto a stimoli stavo a zero.
Da ragazzino pensavo che l’ispirazione venisse soltanto dall’esplorare mondi lontani, lontani il più possibile da casa.
Da “diversamente” ragazzino, come folgorato sulla via di Damasco, ho capito che l’ispirazione è quel momento magico in cui si materializza un’immagine, un pensiero o una sintesi, e che l’unica distanza è quella che ci divide dal nostro potere di immaginare.
A titolo di esempio: Jules Verne non è mai sceso 20.000 leghe sotto i mari e Salgari non è mai andato all’arrembaggio con i pirati della Malesia, eppure hanno raccontato storie che ci appassionano ancora oggi.
Dalla terrazza dello studio dove lavoro non ho ostacoli alla vista, il panorama è a 360 gradi. L’aria briosa delle albe e dei tramonti, gli scenari dipinti da sole, nuvole e natura incantano i sensi e mi acquietano la mente. Quale situazione più favorevole potevo desiderare?
Nel silenzio mi arrivano parole di diverso colore, che si fanno avanti in modo confuso, che vogliono essere considerate.
Il naming brief: cosa voglio comunicare?
Praticamente la lista si scrive da sola. Numerose combinazioni erano interessanti ma qualcuna, guardandola stampata su carta, cercava più di altre di farsi notare. Ogni parola chiedeva di essere pronunciata ad alta voce affinché fosse chiara la sua fluidità, il suo “scivolare sulla lingua”.
Fatta la lista lunga (molte decine di possibilità) dovetti cominciare a selezionare anche se non era facile, perché ogni volta che rinunciavo a una parola che mi era piaciuta, ogni volta era come aggiungere una perdita.
Dovevo scegliere tenendo presenti le relazioni pubblico che riceve/decodifica che fa/passaparola che attiva.
Un esempio per tutti: un brand name come Nike (parola presa in prestito dal greco antico Νίκη che si pronuncia “niche”) le rispetta tutte ed ha una forza diffusiva enorme. È breve, non genera equivoci, il pubblico pensa a qualcosa di vincente e con questo valore lo moltiplica nel passaparola.
Occorre fare attenzione. Chiamarsi, ad esempio, “La Chiromante”, crea dubbi negli utenti ai quali ci rivolgiamo: significherà “la donna che predice il futuro”, o starà ad indicare una scuola di pittura fiamminga ispirata dal dipinto di Luca da Leida? Laddove si genera confusione, nel dubbio, il cervello archivia, le persone cercano altrove e l’obiettivo è mancato.
Dunque, era necessario arrivare ad una rosa ancor più limitata di nomi, dopo aver sfoltito la prima lista, la più lunga, ed aver scremato la seconda (la lista corta), rimaneva uno sparuto gruppo di finalisti: non più di una decina di nomi.
Fatto questo e appena il tempo di tirare un sospiro di sollievo, ed ecco irrompere sulla scena due giudici severi: Marchio e Nome a dominio.
Esplorazione mirata, verifica legale e selezione
Difficile dire chi tra questi due giudici sia più incline alla clemenza.
Partiamo dal Nome a dominio. È la base, la pietra angolare. Se lo trovano occupato, molti decidono di aggiungere una parola o cambiare l’estensione.
È un errore (spesso, non sempre) che fa risparmiare tempo all’inizio ma poi si paga pegno perché:
- ogni estensione ha un suo significato ed un suo target specifico;
- ogni lettera in più aumenta il rischio che il nome sia dimenticato in fretta;
- ogni lettera in più aumenta il rischio di errori di battitura.
Qualcuno potrebbe obiettare: aggiungere il nome della città o del proprio ambito di interesse, aiuta.
Dipende: se volessi chiamarti “palazzorealemilano.it” (ci sono degli omonimi a Torino e a Genova, per esempio) potrei essere d’accordo, ma se decidessi per “abbigliamentoreggiocalabria.it” … beh, no! nemmeno sotto tortura. Non è un caso che i nomi a dominio generino un mercato di milioni e milioni ogni anno, conferma del fatto che un buon nome è fonte di brand awareness.
E adesso il giudice più severo: il Marchio. Il marchio è ciò che identifica un prodotto o un servizio, sia un disegno, un simbolo, un nome. Per necessità di sintesi diciamo solo che prima di procedere è opportuno verificare se ciò che abbiamo in mente è libero o è già stato registrato. Pertanto, a seconda di dove geograficamente si opera e a seconda del segmento merceologico, è opportuno fare prima una ricerca presso l’UIBM (Ufficio Italiano Marchi e Brevetti) e poi presso l’EUIPO (European Union Intellectual Proprerty Office): si eviteranno scelte sbagliate e conseguenti perdite economiche anche importanti.
La scelta finale
La selezione era ormai completata. Fra tutti i possibili nomi, ce n’era uno inusuale, “ingigno”, che continuava a martellarmi in testa. Perché?
Aveva come credenziali l’essere un termine latino e avere un significato che mi convinceva: “genero”, “infondo”. In più, dalla stessa radice, deriva “genius” che presso i Romani era il nume tutelare di un individuo, di una famiglia, di un popolo, di un luogo…oppure, come nel nostro caso, forzando un po’, di un progetto. Nome di buon augurio!
Ma aveva anche altri talenti essendo:
- breve – come abbiamo osservato, un nome più è breve meglio è. Sarebbe stato forse più semplice acquistare in un qualche marketplace un nome a dominio con le relative estensioni. Però le sfide sono stimolanti (anche se stancano), e trovare un nome libero sotto le otto lettere, che avesse un senso per noi, è stata una sfida;
- distintivo – messi sotto la lente numerosi competitor, è risultato che intorno a questo nome c’era il vuoto, circostanza positiva che avrebbe evitato sovrapposizioni e possibili confusioni;
- internazionale – la comunicazione corre sempre più veloce e arriva in tutti gli angoli del pianeta. In questa prospettiva era opportuno scegliere un nome comprensibile anche in realtà linguistiche lontanissime da noi. In questo, Latino Inglese offrono ampi spazi di applicazione.
Fino ad un passo dal traguardo, la nostra scelta era caduta su “ingigno”. L’abbiamo pronunciata tante volte questa parola e ogni volta sembrava che qualcosa si dovesse cambiare.
Ma che cosa? Sicuramente, in momenti diciamo così di disimpegno mentale, sarà successo anche a te di giocare a fare segni su un foglio di carta o a sostituire una lettera ad una parola, ottenendo ad ogni cambio un significato diverso: male, sale, pale… Beh, ci dev’essere successo qualcosa di simile quando siamo approdati da “ingigno” ad “ingigni”, che sta per “essere ingenerato”, “insito” “innato”. Eureka!
Una curiosità: essendo palindromo, comunque lo si legga, suona sempre allo stesso modo. È divertente: quando mi trovo a parlare con qualcuno e a citare il nostro marchio, faccio sempre strike dicendo “leggilo al contrario”.
Funziona sempre! E si fa ricordare meglio!