Brand extension:
definizione, significato ed esempi
Brand extension è la strategia di marketing per la quale un’azienda, già nota e ben posizionata nel proprio settore, si presenta al pubblico con un nuovo prodotto/servizio della stessa categoria di partenza (line extension) oppure con un prodotto/servizio appartenente ad un segmento merceologico diverso (category extension). In entrambi i casi sfrutta “l’effetto alone” trasferendo le qualità positive del brand sul nuovo prodotto.
L’interpretazione della locuzione brand extension non è univoca: la scuola di pensiero che fa capo ad Aaker, Kotler e Armstrong ritiene che brand extension si riferisca soltanto alla category extension o estensione di categoria; Farquhar e Keller vi comprendono anche la line extension o estensione di linea, arrivando così ad un compromesso teorico in grado di spiegare le due direttrici fondamentali che un’azienda può scegliere per guadagnare mercato.
Qualche esempio spiegherà meglio in che cosa consistono le due possibilità di brand extension.
Nel 2018 Colgate annuncia uno spazzolino dotato di intelligenza artificiale, il Connect E1; due anni dopo confeziona il dentifricio “Smile for good” in un tubetto di plastica riciclabile. Si tratta di due innovazioni che restano all’interno della categoria originaria della marca madre (line extension) che nel 1908 commercializzò il primo dentifricio in pasta profumata venduta in vasetti.
Esito opposto aveva avuto nel 1982 la decisione di proporre al mercato la lasagna surgelata da “gustare prima di lavarsi i denti”. Questa iniziativa saltava a piè pari il segmento commerciale in cui Colgate si era ottimamente posizionata (category extension).
Fu un fallimento clamoroso da cui l’Azienda dovette ritirarsi precipitosamente.
Come dar torto a chi, vedendosi servita una lasagna Colgate, avvertiva il fresco sapore del dentifricio prima ancora del corposo e caldo ragù?
Le due esperienze Colgate spiegano praticamente le due indicazioni della brand extension, molto diverse tra loro, ma entrambe debitrici della notorietà e credibilità dell’azienda, e della fidelizzazione della clientela; entrambe finalizzate ad un ampliamento del mercato ma con rischi e benefici di peso differente.
Line extension: sotto lo stesso marchio nasce un prodotto/servizio simile a quelli già commercializzati, magari migliorato o cambiato nel packaging ma sempre coerente con la vocazione originaria dell’azienda. È l’indicazione più seguita che ha come risultato l’offerta di un maggiore assortimento di articoli complementari a quelli già venduti. Proprio perché si presenta con le credenziali di un’azienda già rodata, il nuovo prodotto richiede un minor investimento per imporsi sul mercato ed ha più probabilità di riuscirci.
Se non va si ritira, magari per riproporlo a distanza di tempo in una veste migliore, come fece Giovanni Rana. Nel 2009 Rana esce sul mercato con i “tortellini freschi al cioccolato”; il pubblico non gradì questo “inaspettato primo piatto”, come fu presentato, e i tortellini furono ritirati dal marcato sette mesi dopo.
Nel 2020 Giovanni Rana ci riprova ma stavolta li chiama “ravioli dolci con cioccolato” e li presenta come il “dessert che non ti aspetti”, chiarendo subito che non è un primo piatto ma una prelibatezza da dessert: risultato positivo ed esito completamente diverso grazie ad una comunicazione appropriata e ad un packaging attrattivo.
Category extension: sotto lo stesso marchio nasce un prodotto/servizio che appartiene ad una categoria merceologica diversa da quella di partenza. In questo caso il lavoro propedeutico deve essere molto attento al fine di:
- avere risultati positivi a fine campagna;
- ampliare la platea dei clienti;
- migliorare la brand loyalty e la brand equity;
- aumentare il fatturato.
Certo non sempre l’esito è così felice. Se l’operazione non va bene, poiché la posta in gioco, insieme al nuovo prodotto, è la reputazione del marchio, il primo a risentirne è proprio il marchio. I motivi che possono penalizzare un marchio a causa della brand extension sono diversi, fra cui:
- l’incoerenza rispetto alla mission del marchio;
- la cannibalizzazione del nuovo prodotto a scapito di un altro dello stesso marchio;
- l’incongruenza nella politica dei prezzi. Un prezzo troppo basso rispetto a quello di altri prodotti dello stesso marchio, al consumatore darebbe l’impressione che si è giocato al ribasso sulla qualità suscitando un dubbio: sta succedendo la stessa cosa anche sugli altri prodotti? Effetto alone di pessimo auspicio;
- i nuovi elementi di differenziazione non sono così marcati da imporsi come alternativa alla concorrenza.
Nel 2012 la rivista americana di advertising AdWeek chiese ai propri lettori di votare per le migliori e le peggiori brand extension degli ultimi anni.
Fra le peggiori, la più penalizzata risultò quella di Zippo, storico marchio di accendini, che si era presentato sul mercato dei profumi da donna. La bottiglietta richiamava la forma dell’accendino che bene avrebbe figurato nella mano di un cow-boy, stravaccato a fine giornata alla luce di un falò: impossibile pensare che potesse suscitare emozioni in una donna!
Esempio di brand extension riuscita
Uno degli esempi più noti di brand extension riuscitissima è quello della Disney. La storia comincia con Walt Disney, l’imprenditore visionario americano creatore di sogni. Nel 1928 inventa Topolino, nel 1934 Paperino, e poi i tre porcellini, Biancaneve, Cenerentola… Cartoni animati e film di animazione sono le prime produzioni della Disney.
Nel 1955 la svolta: nasce in California Disneyland, il parco divertimenti dedicato non solo ai bambini ma a tutta la famiglia – iniziativa che molti altri Paesi imiteranno negli anni a seguire- fino al recentissimo Disney+.
Il marchio ha così conquistato un pubblico vastissimo ed è entrato in mercati altrimenti impossibili come le navi da crociera, gli alberghi, le televisioni.
Esempio di brand extension non riuscita
Nel 1989 McDonald’s, già molto famoso come alternativa al pranzo, tenta di posizionarsi anche come alternativa alla cena e introduce la pizza nei propri ristoranti. Poteva essere un’idea vincente se non fosse stato che la pizza richiedeva tempi più lunghi di preparazione ad un costo maggiore rispetto a quello previsto per gli altri piatti del menù.
In poco tempo quasi tutti i McDonald’s che servivano pizza smisero di farla e il prodotto scomparve del tutto nel 2000.